Quand’è che il successo aziendale diventa bene collettivo? Non solo quando un’azienda paga “dividendi” o elargisce bonus ai dipendenti bensì quando il bene diventa comune. Un’equazione che le imprese più avvedute hanno iniziato a scrivere nei loro bilanci: il valore non si misura solo in euro, ma in impatto. Viviamo e leggiamo di crisi sociali e disuguaglianze che da soli non possiamo combattere.

Cosa possiamo fare? Un’azienda, senza spostare capitali o bilanci, può fare un piccolo cambiamento, un nodo in una rete più ampia, il cui successo dipende dalla salute del tessuto in cui opera. Dare un contributo alla collettività, per esempio prendendosi cura di un parco, fornendo beni ad un asilo o a chi è in difficoltà, e chissà quante altre attività legate al territorio che l’azienda vive, sempre proporzionato alle possibilità dell’azienda stessa.  

Un piccolo gesto che oltre a far del bene, si traduce anche in fattore di attrazione: i consumatori premiano chi fa la differenza e i talenti scelgono chi ha uno scopo nobile.  

E così, quasi senza accorgersene, le organizzazioni che guardano oltre il breve termine stanno ridefinendo un concetto di capitalismo che oggi sembra essersi tramutato in colonialismo commerciale.  

Un valore che va messo in contabilità  

Lo scenario del tessuto imprenditoriale è cambiato. Un’impresa non viene più giudicata solo dalla sua redditività, ma dalla sua capacità di generare benefici tangibili per la comunità. Adottare principi di responsabilità sociale non è un atto di generosità, ma una strategia. Significa comprendere che alla base del successo di un Paese ci sono un territorio sano, un’istruzione di qualità e servizi sociali efficienti che creano l’ecosistema ideale per fare business. Un esempio concreto? Destinare una quota dell’utile, o persino una piccola percentuale del fatturato, a realtà strutturate, Enti del Terzo Settore (ETS) come i Lions Club, che canalizzano le risorse verso progetti locali di assistenza, prevenzione sanitaria e sostegno ai giovani. Questa non è elemosina: è investimento nel capitale sociale, la vera infrastruttura del domani. 

Il circolo virtuoso 

Il meccanismo è semplice e potente. Un’azienda che supporta un’iniziativa di riqualificazione urbana o di contrasto alla povertà educativa non sta solo “restituendo”, sta costruendo reputazione, fiducia, legame con il territorio. I dati sono inequivocabili: secondo l’Osservatorio Socialis 2023, il 72% dei consumatori italiani preferisce acquistare da marchi impegnati in cause sociali. Il 68% dei laureati under 30 privilegia datori di lavoro con un chiaro impatto positivo.

Questa leva si traduce in minore costo del marketing, minore turnover del personale e maggiore fedeltà della clientela. La sostenibilità, in questo senso, è l’antidoto alla volatilità del mercato. 

Gli strumenti per agire con sostenibilità 

Fare bene, però, richiede metodo. Molti imprenditori vorrebbero impegnarsi ma temono di disperdere risorse in iniziative inefficaci. È qui che entrano in gioco le federazioni di categoria e gli enti bilaterali. Questi organismi offrono: 

  • Mappatura di enti del terzo settore affidabili (come i Lions, la Croce Rossa o fondazioni locali), evitando il rischio di donare a realtà opache. 
  • Protocolli per la rendicontazione non finanziaria, aiutando le PMI a misurare e comunicare il proprio impatto in modo credibile. 
  • Agevolazioni fiscali e bandi dedicati che rendono gli investimenti sociali non un costo, ma una leva finanziaria efficiente. 

Utilizzare questi servizi significa trasformare un’intenzione vaga in un progetto strategico, monitorabile e vantaggioso sotto il profilo fiscale. 

Un caso concreto: quando le donazioni diventano investimento 

Immaginiamo un’azienda che destina annualmente il 2% del suo utile prima delle imposte al Lions Club Roma Sibylla per il progetto “Urbain” (www.urbain.it), un programma strutturato di rigenerazione urbana che unisce attività a livello scolastico, a laboratori di educazione civica e ambientale in quartieri periferici. Oltre alla detrazione fiscale, quell’impresa: 

  • Rafforza il suo legame con il territorio, supportando un’iniziativa documentata e trasparente che trasforma spazi degradati in luoghi di aggregazione e apprendimento. 
  • Contribuisce a formare i cittadini e i potenziali professionisti di domani, in un’ottica di sviluppo del capitale umano. 
  • Genera un ritorno di immagine misurabile, associando il proprio brand a un progetto concreto di innovazione sociale che attrae clienti sensibili e talenti. 

Questo non è fare carità: è un circolo virtuoso dove il bene della società e il bene dell’azienda smettono di essere in conflitto e iniziano a coincidere, creando valore condiviso e duraturo. 

La nuova leadership 

Alla fine, la più alta forma di responsabilità sociale di un’impresa è la sua sopravvivenza e la sua crescita sana nel lungo periodo, per se stessa e per il capitale umano che la compone. Oggi, questo obiettivo non è più raggiungibile chiudendosi nel proprio interesse immediato. Richiede una visione sistemica, persino olistica, con il coraggio di investire nelle fondamenta della società. Gli strumenti per farlo in modo intelligente ed efficiente esistono.

La scelta spetta all’imprenditore: essere un semplice produttore di ricchezza finanziaria, o diventare un architetto di prosperità condivisa. La storia è già stata scritta da aziende ricordate non solo per quanto hanno guadagnato, ma per quanto hanno contribuito a risolvere. Chi sarà il prossimo? 

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