La fiducia non è un sentimento: è un atto silenzioso, una decisione che si rinnova ogni volta che l’altro dà valore al credito che gli abbiamo affidato. Spesso la consideriamo un concetto astratto, ma in realtà è estremamente pratica. Curioso che “fiducia” venga da “fidere”, affidarsi, mentre “credere” deriva da “dare credito”: due mondi che nella vita professionale si intrecciano di continuo. La domanda è semplice solo in apparenza: arriva prima la fiducia o il credito che decidiamo di concedere a qualcuno?
In certi contesti lavorativi sembra quasi un gioco di rimandi. A volte ti fidi perché hai visto coerenza, altre volte dai credito per necessità – un nuovo collega, un consulente, un partner – e la fiducia la costruisci passo dopo passo, osservando come si muove nelle situazioni difficili.
Nelle reti professionali questo meccanismo si vede benissimo. La sinergia tra persone non nasce per magia: si sviluppa quando qualcuno decide di rischiare un po’ e fare un passo verso l’altro. Non c’è empowerment se manca quella base minima di fiducia che ti permette di delegare, confrontarti, anche discutere senza trasformare ogni divergenza in un conflitto.
Poi ci sono i team. Quando entra una persona nuova, il gruppo spesso parte concedendole credito: ruolo, competenze dichiarate, reputazione. Ma la fiducia vera si forma sulle cose “di bottega”: come comunica, come ascolta, quanto è chiaro nel dire un sì e soprattutto un no, come gestisce i conflitti senza allargare le crepe.
Vale anche il contrario. Nelle trattative, ad esempio, è la fiducia relazionale che ti fa sedere al tavolo. Non credi ancora nelle soluzioni possibili, ma percepisci che l’altro è affidabile abbastanza da poterci provare.
In fondo la domanda resta aperta: quanta disponibilità abbiamo, oggi, a muoverci in quella zona intermedia dove fiducia e credito si alimentano a vicenda? Perché è lì che le relazioni professionali diventano davvero generative: meno perfette, più vere. E, soprattutto, sostenibili nel tempo.