Rami Elhanan è un israeliano che ha fatto tre guerre. Bassam Aramin è un palestinese uscito di prigione. Sono due uomini nati per odiarsi e combattersi. Invece, quando la vita li mette alla prova con la pena più grande che un padre possa affrontare, l’uccisione delle figlie per parte aversa, scelgono di scendere dalla strada della vendetta già tracciata per loro e iniziano una vita di riconciliazione e di pace.
«Quanti figli dobbiamo ancora sacrificare alle sacre pietre di Israele?» si chiede Bassam.
«Non finirà finché non parliamo» gli fa eco Rami.
Dopo essere scesi nella valle del dolore e della disperazione, Rami e Bassam aderiscono al Partent’s Circle, un’associazione che unisce i famigliari israeliani e palestinesi che hanno perso un figlio per contro della controparte e ai Combattenti per la Pace, un’associazione di ex soldati israeliani e di ex militanti palestinesi che si adopera per il disarmo e la difesa dagli attacchi dei coloni. I Combattenti per la pace e Partent’s Circle sono due realtà bi-nazionali che si impegnano per il dialogo e portano avanti la giustizia riparativa. La loro azione non si è interrotta neanche dopo il 7 ottobre o l’assedio a Gaza.
Oggi Rami e Bassam si chiamano fratelli e girano il mondo raccontando che un’altra storia è possibile.
«Come scrittrici abbiamo scelto di raccontare ai ragazzi la loro storia perché un atto molto forte di fratellanza e di giustizia. Siamo convinte che sia necessario far sapere ai ragazzi che anche in questo mondo che sembra rotolare verso la brutalità la speranza esiste, è concreta. E qualcuno, come Rami e Bassam, la abita. Per farlo abbiamo dato voce a Smadar e Abir, le loro figlie uccise, la prima in un attentato in centro a Gerusalemme nel 1997, e la seconda da un soldato israeliano che le ha sparato alla nuca, mentre rientrava a scuola.»
Fra i due assassini passano esattamente dieci anni ma come dicono i due padri, la mano che ha ucciso le loro figlie è la medesima e si chiama “occupazione”, l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, in particolare della Striscia di Gaza e della Cisgiordania.
«Dal punto di vista narrativo, la nostra idea è stata fin da subito rendere possibile quel dialogo che fra le due ragazze non è mai potuto accadere nella realtà, mentre le loro famiglie ormai sono diventate una sola, grande famiglia. Così, almeno nello spazio narrativo, Abir e Smadar sono vicine, chiacchierano e ragionano insieme del loro passato, di quello dei loro popoli ma anche del presente e del futuro, in un dialogo che si fa denso e commovente. Pagina dopo pagina, la voce di Abir e quella di Smadar si alternano alla voce narrante ripercorrendo le vite dei loro padri come a dire “se ci sono riusciti loro a parlarsi, se ci sono riusciti loro a diventare fratelli, allora lo possono fare tutti”.
Il libro, edito da DeAgostini, in un solo mese è già andato in ristampa e sta raccogliendo grande interesse sia da parte dei ragazzi che lo leggono in classe sia da parte della società civile che si adopera per organizzare presentazioni e momenti di confronto.
Mi chiamo Smadar Elhanan. Il mio nome significa “fiore che si schiude” e viene dalla Bibbia, dal Cantico deiCantici. L’hanno scelto per me mio padre, Rami, e mia madre, Nurit, ma tutti mi chiamano Smadari. Avevo tredici anni e con un po’ di fortuna, e due settimane in più, ne avrei compiuti quattordici. Adesso può sembrare un dettaglio irrilevante, ma non lo è. Volevo far scorrere veloci i giorni, come faceva il mio walkman con il nastro delle audiocassette, in modo che tutte le cose belle che mi aspettavano arrivassero presto. Volevo uscire fino a tardi, guidare il motorino, avere una storia d’amore “strappabudella”, diventare una pianista, anzi no, una ballerina. Volevo essere grande.L’unica cosa che non volevo proprio era fare il servizio militare.
Il mio nome è Abir Aramin. Abir deriva dall’arabo antico e significa qualcosa come “profumo di fiore”. Vedi, Smadar? Anche il mio nome è legato ai fiori, come il tuo. Avevo nove anni e quella mattina volevo prepararmi con calma. Mi sono svegliata prima del solito. Non ho mai avuto bisogno della sveglia, perché era mamma Salwa che mi dava il buongiorno con un bacio. […] Nonostante la fame, quella mattina ho mangiato poco. Ed è una cosa di cui mi pentirò per l’eternità: non assaggerò più l’hummus di mamma. Ma quel giorno non potevo immaginarlo, e poi ero troppo preoccupata per l’esame di aritmetica. È vero che sono brava in questa materia, ed è anche vero che la mia memoria trattiene un sacco di informazioni. Chiedimi di ripeterti una canzone o una poesia che ho sentito una sola volta: sono pronta! Ma un esame è un esame e lo stomaco mi si chiudeva ogni volta. Sognavo di diventare un’ingegnera e oltre ai numeri mi piacevano le figure geometriche, che disegnavo anche sulle copertine dei quaderni.
Da Mio padre, tuo padre. C. Benedetto, L. Ciliento (2025, DeAgostini)
