
Per molti secoli la scienza ufficiale ha sostenuto che i circuiti cerebrali fossero immutabili, cablati fin dalla nascita per produrre in ogni persona esiti non modificabili dall’apprendimento e che con l’invecchiamento ogni cervello andasse incontro al suo declino senza possibilità di ridurlo o bloccarlo. Non è così: il neuroscienziato Eric Kandel vinse il Nobel per la medicina nel 2000 per aver dimostrato che l’apprendimento può attivare geni in grado di modificare la struttura neurale; quindi, il nostro cervello si modifica ad ogni evento ed il ripetersi di una specifica esperienza determina una risposta comportamentale; pertanto, noi siamo la risposta derivante dagli stimoli in cui viviamo.
L’esperienza di uno spazio architettonico non è solo visiva
Uno dei fattori chiave per potenziare la neuroplasticità, ovvero la capacità del cervello di adattarsi e riorganizzarsi, è la ripetizione della pratica. Questa stimola un processo chiamato mielinogenesi, descritto dal neurobiologo Daniel Siegel nel suo libro Mappe per la mente. Quando si impara una nuova abilità attraverso un allenamento intenso e prolungato — si parla spesso di almeno diecimila ore — il cervello, grazie agli oligodendrociti, produce mielina: una sostanza lipidica che avvolge l’assone dei neuroni, migliorando la trasmissione degli impulsi nervosi.
La presenza della mielina consente ai segnali neuronali di viaggiare lungo gli assoni fino a cento volte più velocemente. Un circuito mielinizzato risulta tremila volte più efficiente rispetto a uno privo di rivestimento. È anche per questo che gli atleti olimpici riescono a compiere imprese straordinarie: hanno “allenato” circuiti neurali specifici, rendendoli incredibilmente performanti grazie alla mielina. Noi, al contrario, non abbiamo investito lo stesso tempo e disciplina per ottenere tali risultati.
La neuroplasticità, spesso associata al concetto di apprendimento e cambiamento consapevole, non dipende però solo dall’attenzione o dalla coscienza dell’individuo. Non si attiva unicamente quando svolgiamo un’attività con consapevolezza: entrano in gioco anche stimoli ambientali, che influenzano il cervello in modo significativo. Questa consapevolezza apre un dialogo importante tra neuroscienze e architettura, in cui lo spazio diventa parte attiva nella formazione delle nostre reti neuronali.
La plasticità neuronale è infatti un meccanismo che permette al cervello di restare flessibile per tutta la vita, adattandosi a condizioni ambientali e cambiamenti. Non si tratta solo di un miglioramento: il sistema nervoso può modificarsi anche in negativo, ad esempio a causa di traumi, stress prolungato o ambienti ostili. Si parla quindi di una riorganizzazione strutturale e funzionale, che può manifestarsi in risposta all’esperienza, al tempo o a stimoli esterni.
I neuroni, essendo profondamente legati al corpo, al movimento e alla percezione sensoriale, si attivano anche attraverso un meccanismo affascinante: quello dei neuroni specchio. Scoperti da Giacomo Rizzolatti negli anni ’90 presso l’Università di Parma, i neuroni specchio si attivano sia quando compiamo un’azione, sia quando osserviamo qualcun altro compierla. Questo meccanismo si estende oltre le azioni: coinvolge anche emozioni, sensazioni e linguaggio, rendendoci capaci di entrare in risonanza empatica con ciò che ci circonda.
La presenza di questo sistema ci permette, ad esempio, di “sentire” un ambiente attraverso il corpo: l’esperienza di uno spazio architettonico non è solo visiva, ma coinvolge schemi corporei inconsci. Quando ci troviamo davanti a un edificio, il nostro corpo ne mima la struttura: le tensioni muscolari, le sensazioni interne, i movimenti oculari partecipano alla percezione dello spazio. Questo ci spiega perché alcune architetture ci fanno sentire accolti e protetti, mentre altre risultano fredde o dissonanti.
Analogamente, il flusso di una melodia o la composizione di un quadro astratto vengono tradotti in sensazioni corporee: la musica diventa ritmo interno, il colore si trasforma in tensione muscolare, le forme architettoniche si riflettono nella postura. Ogni elemento sensoriale esterno, dunque, entra in dialogo con la nostra dimensione interiore.
Tutto ciò porta a riflettere sull’importanza di ambienti costruiti a misura d’uomo. Che effetto ha, ad esempio, un certo spazio lavorativo sul benessere emotivo, sulla produttività e sulla salute mentale? È tempo di superare l’idea di ambienti standardizzati e rigidi. Abbiamo cervelli diversi, che rispondono in modo differente agli stimoli. Lo spazio dovrebbe tener conto di queste differenze, offrendo esperienze capaci di attivare circuiti neurali positivi, potenziando apprendimento, motivazione e benessere.