
In Italia le statistiche parlano di ripresa ma le buste paga raccontano un’altra storia, la vera differenza tra chi resta e chi crolla è spesso una sola parola: adattamento. E intendiamoci, non quello passivo di chi ingoia il rospo bensì l’arte vitale e strategica di chi cambia pelle senza perdere l’identità.
È la competenza silenziosa che tiene in piedi lavoratori precari, impiegati costretti dalla burocrazia, liberi professionisti senza tutele e infine, ma non ultimi, i giovani in cerca di un posto che abbia almeno una “possibilità” di futuro come ce l’hanno raccontato i ns vecchi. È un filo invisibile che cuce la speranza a un mercato del lavoro frantumato, fluido e, purtroppo, feroce.
Il lavoro è cambiato. Chi lavora, pure.
Una volta bastava un diploma, un apprendistato per avere un contratto a tempo indeterminato. Sufficiente per costruirsi una carriera. I più ardui diventavano imprenditori. Oggi basta un algoritmo mal calibrato per far saltare l’intero reparto di una azienda che sia mediamente strutturata. Un niente per perdere l’incarico. Una riorganizzazione per ritrovarsi a dover imparare un mestiere nuovo a cinquant’anni trovandosi una lettera sulla scrivania.
L’adattamento, in questo scenario, non è più un’opzione: è sopravvivenza! Ma al contempo è anche molto di più. È la capacità di restare vivi professionalmente, emotivamente, umanamente. È l’impiegato che accetta di ricominciare da un corso di aggiornamento, il mastro che si reinventa formatore, la segretaria che diventa social media manager, il cameriere che diventa imprenditore e si trasforma in consulente per ristoratori in crisi. È la madre che dopo anni fuori dal mercato del lavoro impara a utilizzare le tecnologie informatiche e inizia un’attività magari lavorando da casa. È il ventenne che passa da rider a progettista 3D grazie a un’opportunità magari vista su YouTube e tanta determinazione.
In Italia, la retorica del cambiamento spesso scavalca la realtà. Ci si riempie la bocca con parole come reskilling, upskilling ma per chi lavora, adattarsi significa fare i conti con il tempo che manca, i soldi che non ci sono, le competenze da acquisire in fretta mentre si fatica a pagare l’affitto. Significa, troppo spesso, che l’adattamento è a senso unico: lo si chiede ai lavoratori, ma raramente lo si pretende dalle imprese, dalle istituzioni, da chi scrive leggi o disegna piani strategici.
Chi lavora su questi aspetti? Chi fa fronte alle necessità umane rispetto al mercato del lavoro? La sensazione è che manchi qualcosa o qualcuno che se ne fa carico. Eppure, nonostante tutto, l’Italia del lavoro è piena di storie di adattamento straordinario. Non fanno notizia perché non alzano la voce. Ma ci sono.
Persone che si reinventano portando con sé non solo le competenze, ma anche la memoria di un mestiere che rischiava di scomparire e che, trasformato, diventa la base per una nuova figura. Persone che non hanno dimenticato magari la fatica dei turni o cosa vuol dire alzarsi la mattina e fare centinaia di chilometri per il lavoro. Senza contare chi in questo paese viene per trovare lavoro, parole nuove, abitudini nuove per vivere in un Paese che cambia.
La fatica di restare mobili
Adattarsi ha un costo. Psicologico, economico, identitario. Chi cambia spesso lavoro, ruolo, contesto, rischia di perdere il senso di continuità, di radicamento e quindi l’identità. Nella nostra Italia il 22% dei giovani tra i 15 e i 34 anni non studia e non lavora, la precarietà è strutturale (senza puntare il dito alla politica) e il lavoro nero è ancora fortemente in voga. Non adattarsi può significare uscire dal mondo del lavoro e restare fermi. Per non farvi più rientro.
È vero, avevo detto che non avrei puntato il dito sulla politica, la realtà è che le politiche pubbliche non sempre sono all’altezza. I centri per l’impiego sono inadeguati, i programmi di formazione sono scollegati dal tessuto economico reale e le politiche di incentivo sono spesso appannaggio di pochi. Persino il tanto decantato Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) promette investimenti in transizione ecologica e digitale, ma la vera transizione è culturale: serve una nuova dignità per chi cambia strada, per chi impara di nuovo, per chi non smette mai di ricominciare. E qui è ancor più forte la sensazione che manchi una figura capace di raccogliere le esigenze e fornire risposte.
L’adattamento come patto sociale
Non può esistere adattamento senza alleanze. Le imprese devono fare la loro parte, investendo nella formazione continua e riconoscendo il valore della persona, non solo del profitto. Le istituzioni devono costruire sistemi che accompagnino le transizioni, non che le penalizzino. Ma anche i lavoratori devono imparare a vedersi in modo diverso: non più come ruoli statici, ma come identità in movimento.
In questo, l’adattamento è una forma di intelligenza. E lo strumento in realtà esiste, sono gli enti bilaterali e le federazioni che uniscono imprese e lavoratori per non lasciare indietro nessuno, che promuovono la formazione affinché la professione non resti “aggrappata” al passato.
Il lavoro che verrà
L’Italia non ha bisogno di imprenditori solitari. Ha bisogno di reti solide, di politiche intelligenti, di rapporti di lavoro onesti. E ha bisogno di restituire valore a chi si adatta. Perché, se è vero che il futuro del lavoro è incerto, è altrettanto vero che nessun algoritmo può sostituire la capacità umana di trovare un equilibrio.
Adattarsi, oggi, è il vero gesto rivoluzionario. È un atto di fiducia verso sé stessi e verso gli altri. È il primo passo per costruire non solo un’economia più giusta, ma anche una società più consapevole. Perché anche il lavoro cambia e deve cambiare il modo in cui lo affrontiamo.